Tra le infinite descrizioni del Barbone che possiamo trovare sui più autorevoli (e non) libri di testo, oltre che sulla rete, sarebbe opportuno fare riferimento a quella dello Standard Ufficiale che l’ENCI riporta fedelmente sul suo portale e che dovrebbe essere il principale punto di riferimento di chi alleva questa razza.
È una descrizione meticolosa, anche se un po’ asettica, dove minuziose particolarità vengono considerate pregi o difetti della razza.
Alcune caratteristiche, trattate in parte meno rilevante riguardano invece l’aspetto caratteriale. Grande attenzione viene posta alle proporzioni; ad esempio quella tra muso e cranio, tra testa e corpo, quella della lunghezza delle orecchie, l’angolazione delle zampe posteriori e chi più ne ha più ne metta.
Chi però non ha interesse a cercare il proprio cucciolo con il centimetro alla mano, riporto una straordinaria descrizione tratta dal libro Piacere di conoscerti di Elena Garoni, dove viene estrapolata, a mio avviso, la vera essenza di questa magnifica razza.
Non si può essere vaghi quando si ha un Barbone.
Quanto è grande? È grande mole, media mole, nano, toy?
E il colore? Bianco, marrone, nero, argenteo, grigio argenteo, grigio-beige, rosso, beige, crema, albicocca, blu, champagne, cioccolato, caffelatte, pesca?
Magari è multicolore, come piace negli Stati Uniti, e potrete definirlo panaché, come la birra con la gazzosa?
È un riccio classico o è un cordato e lo scambiano ignominiosamente per un Pastore bergamasco?
E la toelettatura? Alla leoncino, alla maniera moderna, all’inglese o puppy?
E non si pensi che la toelettatura sia nata per intenti puramente estetici!
Serviva per le attività in acqua. Il pelo lungo sulla testa e sul tronco proteggeva le parti più delicate esposte al raffreddamento, mentre il pelo rasato sui posteriori fino alle costole consentiva al cane una più lesta e agevole uscita dall’acqua, senza il peso del pelo imbibito.
Diretto discendente del Barbet, e quindi un gran lavoratore, lascia la campagna dove stana le anatre e le porta fuori dagli stagni, per entrare algido nei salotti nobili e nelle corti di tutta Europa, e viene rappresentato nei dipinti in braccio alle damine e languidamente adagiato sui sofà.
Con la Rivoluzione francese accompagna sulla via dell’esilio i suoi nobili padroni e si fa conoscere in tutta Europa e poi negli Stati Uniti.
Dopo la seconda guerra mondiale, e il successivo boom economico, è fra i primi a entrare nelle case come cane di famiglia e ancora adesso non riesce a essere spodestato del tutto dal suo ruolo, a dispetto dell’arrivo di Jack Russel e Bouledogue francesi.
Noi, cresciuti con i cartoni animati giapponesi, non riusciamo a slegare l’immagine del Barbone da Dolce Remì e dal suo cagnetto bianco travestito da circense, anche se veniamo presi da una straziante malinconia e da un senso disperato di ingiustizia verso il mondo.
Ma da Capi, barboncino bianco, abbiamo imparato a non sottovalutare mai i batuffoli di pelo, perché sono in grado d’imparare tutto, e con loro si può sopravvivere alle peggiori disgrazie
La motivazione sociale interspecifica è lo strumento che ha permesso ai Barboni di trovarsi a loro agio negli affollati palazzi nobiliari dei secoli passati, sui tram della frettolosa Milano e sulle lente passeggiate del lungomare ligure.
Con i loro conspecifici ci sanno fare con sicurezza, sostenuti da un’ottima comunicazione, ma spesso sono ostacolati dalle toelettature da esposizione, che li rendono più simili a pupazzi semoventi che a cani con una ferma dignità.
Il loro tratto più straordinario è senz’altro la motivazione collaborativa, che questi cani intendono come stare insieme a qualunque costo.
La collaborazione è strettamente legata alla motivazione affiliativa, con un sentimento vicino alla devozione.
Imbastiscono una relazione figliale quando entrano in casa da cuccioli, e in condizioni di sviluppo comportamentale equilibrato sono in grado di divenire compagni e poi genitori loro stessi, versatili ad assumere ruoli diversificati e adeguati.
La libertà di crescere, di passare da cuccioli a individui adulti, non è scontata all’interno di una relazione come quella che noi umani costruiamo dentro le strette mura domestiche.
I nostri connotati iperprotettivi, che si intensificano quando i loro tratti neotenici sono particolarmente vividi, accesi dagli occhioni, dal pelo morbido e dalla inusitata gaiezza, sono la causa più comune del mancato raggiungimento del completamento della maturità sociale.
Rischiano di rimanere dipendenti dalla nostra presenza; ed ecco allora che la motivazione affiliativa può prendere dei tratti ossessivi, e questi cani non riescono a stare soli neppure il tempo che occorre a portar giù la pattumiera, e diventano spesso i protagonisti involontari di scenate davanti all’amministratore condominiale per disturbo della quiete.
Molti di loro rimangono imprigionati in un ruolo riduttivo di bambini di famiglia, anche quando raggiungono i sette anni, e faticano ad affrontare il disagio di stare lontani dal loro gruppo.
Il rischio, dunque, è di passare da cani devoti a pazienti con disturbo dell’attaccamento.
La responsabilità della famiglia umana, dunque, è di sfuggire alla trappola tesa dalla selezione di razza e dalle nostre caratteristiche umane di forsennata epimelesi (quell’impulso che soprattutto i mammiferi sociali provano trovandosi di fronte a un essere vivente, anche di specie diversa, che in qualche modo riproduce le fattezze del neonato e che li induce a non attaccarlo, anzi a prendersene cura) – Linguaggio tecnico… o cinoegizio?
Ma come si fa a diventare grandi?
Una buona autostima, delle giuste frequentazioni, delle esperienze guidate ma autonome, un discreto bilanciamento fra cautela e coraggio, la conquista della fiducia dei referenti, la possibilità preziosa di fare degli errori, e di esserne perdonati. Tutti i cani ce la possono fare, a qualunque età comincino.
La domanda vera è: noi, compagni umani, siamo certi di desiderare davvero che loro siano felici anche senza di noi?